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Viva RaiPlay!, facciamoci due domande…

Il vero bilancio è sulla natura dell’operazione. I risultati si vedranno nel medio-lungo termine.

pubblicato 21 Dicembre 2019 aggiornato 30 Ottobre 2020 14:29

Ho sempre sostenuto che Viva RaiPlay! fosse un modo per presentare in maniera accattivante ai 40-60enni una piattaforma di contenuti on demand a molti ignota e per molti sepolta da quella patina di ‘stantio’ che avvolge l’offerta Rai e che si ripercuote sul suo archivio. Peccato, però, che il vero cuore di RaiPlay sia nelle sue teche da storia della tv e del Paese, una miniera d’oro per chi ha un pizzico di curiosità per il mezzo e per il nostro passato, soprattutto per chi ha collezionato tonnellate di videocassette dei propri programmi preferiti per avere modo di rivederli in un periodo – che ora sembra preistoria – in cui la tv era il mezzo di riproduzione meno riproducibile, che destinava all’oblio chicche diventate poi il cuore di programmi come Fuori Orario, un RaiPlay ante-litteram. Ma storia e memoria sono parolacce in questo particolare periodo sociale e politico, e non approfondiamo.

Se il proprio patrimonio non basta, si cerca allora qualcosa di nuovo o che quantomeno abbia il sapore della novità e dell’innovazione, nel tentativo di distogliere i 35-60enni (smart) dalle più cool e trendy Netflix e Amazon e attirarli con uno show live che attinge sì al più classico dei generi, il varietà, ma che ha dalla sua la forza di un marchio, Fiorello, che incarna un modo riconoscibile di fare spettacolo. Un marchio che ha cercato anche il pubblico young, con qualche innesto social durato molto poco (cfr. tiktoker et similia), anche perché non è ridicolizzando senior sconosciuti ai teen che si conquista quella fascia che per definizione non guarda live, non guarda show, ma si rifugia in contenuti di genere che non includono Venditti che canta Heidi, tagliato invece per étonner i quarantenni e oltre.

Viva RaiPlay! ha funzionato?

Queste settimane di Viva RaiPlay hanno lasciato delle domande aperte. Ha funzionato? Beh, la risposta non può che chiamare in causa gli obiettivi. Se la finalità era davvero quella di avvicinare fasce di pubblico finora estranee alla piattaforma (riferendomi ovviamente alla fruizione dei contenuti on demand) i risultati si vedranno nel medio-lungo periodo, osservando le abitudini di consumo, la reattività ai contenuti speciali, la risposta alla library e non nei ‘record di ascolto’ senza confronto cui si inneggia tanto. E con Fiorello a tirare la volata, a seguirlo non può che essere il suo target privilegiato, quello che condivide con lui immaginario collettivo ed enciclopedia, per dirla alla Eco. Per le altre fasce ci vuole un altro pifferaio. E lì si combatte davvero la lotta per i contenuti esclusivi, non live, capaci di attirare il pubblico più giovane abituato ad altre piattaforme. Ma uno ‘Stranger Things’ prodotto dalla Rai potrà essere mai proposto in esclusiva su RaiPlay? O meglio, dovrebbe essere proposto in esclusiva su RaiPlay, tagliando fuori la tv? E su questo punto proveremo a tornare.

Che senso ha uno show live su una OTT?

La seconda domanda è legata allo specifico della piattaforma: che senso ha uno show live su una OTT? Per definizione, l’OTT libera la fruizione dal giogo dell’orario, del palinsesto, della programmazione definita: dare un appuntamento live in esclusiva è la negazione stessa della piattaforma. Diverso potrebbe essere se fossero Netflix e Amazon (realtà che non hanno reti alternative di trasmissione) a produrre un evento live, fruito da milioni di abbonati nel mondo: e lì il brivido della globalità si avverte già quando viene rilasciata una serie in tutti i paesi coperti dal servizio. Con il live su RaiPlay, invece, la Rai si ritaglia un canale tv in più, dove rifugiarsi in caso di bisogno e dove sfuggire all’Auditel. Più che un’innovazione, un soppalco. Più che un esperimento crossmediale, una exit strategy.

Ribadisco, quindi, che nella scelta di testare la programmazione live sull’OTT vedo essenzialmente un tentativo di traino sui contenuti on demand. Il che è forse una speranza: temo, infatti, che si possa andare verso la creazione di ‘una nicchia nella nicchia’, destinata a quei titoli che si pensa non possano mai avere spazio sulle reti tv dell’azienda stessa, ovvero della principale industria culturale italiana. Sarebbe una sconfitta per l’offerta e per il rapporto con le audiences. Si potrebbe creare un ulteriore gap tra chi si districa con consapevolezza e piacere tra i contenuti digitali e chi – per pigrizia, pregiudizio o analfabetismo digitale – non vi accede. E devo dire che anche il caso di Liberi Tutti, la sitcom scritta e diretta da Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico con Giorgio Tirabassi protagonista, pone alcuni interrogativi: quel prodotto sarà mai trasmesso in tv? E se no, perché? Perché troppo ‘innovativo’ nei contenuti (direi anche di no, al netto di un riferimento alle BR che vedo già oggetto di polemiche strumentali)? Se non fosse trasmesso, non vorrebbe dire negare ai telespettatori (non ai ‘piattaformisti’) qualcosa di diverso e di gratuito, là dove i contenuti ‘innovativi’ dei concorrenti sono rigorosamente in abbonamento? Un cortocircuito insomma c’è e non tanto (o almeno non solo) nei contenuti prodotti (siano essi lo show di Fiorello o un titolo fictional), ma soprattutto nella loro collocazione, nella loro funzione di raccordo tra due realtà audiovisive finora complementari in Rai che adesso diventano quasi ‘concorrenziali’.

L’innovazione, quindi, dov’è?

L’effetto innovativo di Viva RaiPlay! è di forma, più che di sostanza. Fiorello e i suoi autori hanno saputo giocare col linguaggio televisivo rompendo la convenzione più stringente, il tempo, e dilatando lo spazio, nel tentativo di fare del paratesto la caratteristica del testo stesso. Da una parte, infatti, Fiorello e i suoi autori si sono divertiti a moltiplicare il tempo, estendendolo e comprimendolo, o almeno dando la sensazione che si potesse fare; dall’altra con i collegamenti col Tg1 da una parte e l’after show dall’altra hanno infranto i limiti (ridisengnando i titoli di testi e di coda), dando corpo a uno show che apparentemente aveva una parte sul palco e una dietro le quinte, uno spazio pubblico e uno privato. La vera natura di questa presunta osmosi è però emersa con tutta la sua forza nell’ultima puntata, quando un problema tecnico ha inficiato l’inizio e quando sul finale si è ‘invitato’ il pubblico alla festa di fine produzione. Di fronte al problema tecnico si è ricorso al più classico degli strumenti tv, la sfumata a nero (là dove la rottura delle convenzioni avrebbe potuto esplodere con una risoluzione della crisi coram piattaformam, infrangendo davvero la quarta parete, in tutto e per tutto), così come la ‘promessa’ di un after show vero si è risolta nell’attesa che Fiorello uscisse dal camerino dopo la doccia e raggiungesse il buffet. Ed è stato forse l’elemento che più di altri ha sancito la centralità del personaggio sull’esperimento. Da Viva RaiPlay a Viva Fiore… In sostanza, quindi, il pubblico è rimasto pubblico e il privato è rimasto privato, sia pur con confini tra i due ambiti sempre più sfumati (come insegna Meyrowitz da decenni, peraltro).

Cosa dopo Viva RaiPlay?

Questa forte identificazione tra testo e contesto, tra medium e messaggio, tra personaggio e piattaforma, ha dei rischi. Il testimonial rischia di cannibalizzare il prodotto.

La sfida vera è evitare che Fiorello cannibalizzi RaiPlay. Il rischio concreto è che si pensi che ora che è finito lo show si spenga il ‘canale’. E in fondo proprio questo è il cortocircuito non virtuoso che l’operazione può aver provocato, ovvero un’equivalenza tra RaiPlay canale, acceso alla bisogna, e RaiPlay archivio, sempre disponibile (che è poi la sua vera natura, la sua vera ricchezza, la sua incommensurabile forza), ma oscurato dai lazzi della contingenza.

E dire che di potenzialità live il ‘canale’ ne ha almeno una che farebbe felici gli appassionati del mezzo tv e potrebbe essere una straordinaria opportunità di conoscenza e di consapevolezza per i mestieri dello spettacolo: il backstage in diretta. Quello che viene solitamente riservato alle dirette social potrebbe essere davvero il ‘second screen’ online, uno sguardo dietro le quinte della diretta per mostrare cosa sia la macchina della tv. Una formazione continua sulla televisione che renderebbe forse anche il pubblico più consapevole del lavoro che c’è dietro un qualsiasi programma. Una via di mezzo tra l’Extra del GF e le dirette FB; una sorta di ‘altra faccia’ della radio-visione0, un modo per mostrare l’invisibile. Certo, ci vuole molto coraggio a svelare i propri altarini, ma sarebbe davvero la rottura della quarta parete e, a mio avviso, un uso davvero innovativo per una piattaforma per la quale si cerca una diversa identità (come se l’essere una teca fosse insufficiente) anche produttiva, magari più libera di quella televisiva. Cosa che però sembra squalificare la propria tv, per certi versi.

Si cerca una quadra. Si cercano pubblici. Si cercano investitori. Si cerca un modo di ampliare platee. E senza snaturarsi, mantenendo tutte le proprie identità e trovando un equilibrio tra missione, natura, contenuti. In questo senso, il momento è davvero di passaggio. Viva RaiPlay! non è la risposta alla ridefinizione del panorama mediale. Magari un tentativo, ingenuo, di tenere insieme entità eterogenee senza osare più di tanto. In fondo c’è da capire un sistema, prima di rivoluzionarlo.

NB. Se volete vedere qualcosa di davvero ‘innovativo’, sia pur nel solco di una tradizione trentennale, andate su quel gioiellino di RaiPlay e recuperate Stati Generali

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